Anonymous writes "Sembra che il De Vulgari Elequentia, composto tra il 1301 e il 1305, non abbia goduto di grande fortuna e diffusione, almeno inizialmente, tanto che fino all’inizio del Cinquecento, se ne perdono quasi le tracce[1].
Vista la ridotta diffusione iniziale appare quindi difficile imputare a questo piccolo trattato l’origine delle sventure linguistiche padane, pertanto quella koinè letteraria padana, ovvero quella lingua letteraria d’uso comune a tutta la Padania , che nel corso del Duecento “era già sulla via di assurgere a lingua letteraria nazionale” e che “veniva già sentita come una lingua romanza indipendente allo stesso livello delle lingue francese e toscana”2, come ricorda il grande linguista Gerhard Rohlf, fu presto sostituita dal Toscano in seguito al prestigio da questo conseguito grazie alla produzione poetico letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio e forse grazie anche al potere economico della Firenze medioevale.
Ben diverso è stato, in tempi più recenti, il destino del De Vulgari Elequentia, tanto che ancor oggi parecchi studiosi lo considerano una sorta di fonte indiscussa e lo ritengono un vero e proprio termine di paragone cui rifarsi per esprimere giudizi letterari, poetici, ma anche, e ciò è inaccettabile, linguistici3. Non è quindi un dettaglio di poco conto rilevare che al suo interno si trovino tutte le accuse e le calunnie, anche spicciole e di bassa lega, che da secoli ancora tormentano e umiliano le nostre maderlèngue padane, ormai orfane di una forma comune condivisa, di una koinè, tuttavia, è bene precisare sin da ora che la corrente di pensiero che porta alla ricostruzione di una koiné Padana non è certo esaurita, ed è ben provvista di solidi argomenti scientifici 3.
Alcune delle invettive riportate nel trattato sembrano già ampiamente diffuse all’inizio del Trecento e pertanto sembra logico supporre che Dante si limiti a condividerle e a riproporle in quanto utili ai suoi scopi, altre invece sembrano totalmente frutto di una sua personale riflessione linguistica.
L’opera presenta nei primi capitoli una lunga digressione sull’origine delle lingue; partendo dalla biblica vicenda della torre di Babele, Dante ci racconta come da un’unica lingua originaria si sia giunti ad un insieme assai vasto di idiomi, tanto che “se volessimo calcolare le varietà principali, secondarie e di livello ancor più basso dei volgari italiani ci troveremmo a classificare più di mille varietà diverse” (QUAPROPTER, SI PRIMAS ET SECUNDARIAS ET SUBSECUNDARIAS VULGARIS YTALIE VARIATIONES CALCULARE VELIMUS, ET IN HOC MINIMO MUNDI ANGOLO NON SOLUM AD MILLENAM LOQUELE VARIATIONEM VENIRE CONTIGERIT, SED ETIAM AD MAGIS ULTRA). Una vera e propria polverizzazione linguistica di cui Dante ci dà anche un esempio pratico: persino all’interno di una stessa città si parla in modo diverso, perché l’idioma dei bolognesi di Borgo San Felice è diverso da quello dei bolognesi di Strada Maggiore.
Letto questo passo è automatico ricordare i tanti nostri detrattori che ricercando con puntiglio tutte le minime differenze, ancora oggi negano, non solo l’unità linguistica di base tra le varie maderlèngue padane, ma l’esistenza stessa delle nostre maderlèngue: è infatti facile sentirli chieder con soddisfazione mista ad arroganza “Ma come si può parlare di Bergamasco (ad esempio) quando basta passar soltanto da un paese all’altro per notare subito delle differenze?”
In realtà, se si ha la volontà e l’onestà di guardar oltre le differenze, spesso infinitesimali, non è affatto difficile individuare un’unità linguistica di fondo che non solo riunisce tutte le maderlèngue padane, ma che consente anche di distinguerle, su basi scientifiche, sia dall’Italiano, di cui non sono per nulla dialetti, che dalle altre lingue romanze come ormai da tempo dimostrato dalla linguistica internazionale5.
In ogni caso all’interno di questo nugolo di idiomi il compito che Dante si affida, per altro senza che nessuno gliel’abbia chiesto, è quello di individuare il volgare “più bello ed illustre” (DECENTIOREM ATQUE ILLUSTREM; libro 1, capitolo XI). Dante introduce così due parametri di giudizio decisamente opinabili che nulla hanno di scientifico e di linguistico, parametri su cui però ancora oggi spesso in molti si basano. Su quali basi si può sostener che l’italiano è più bello? Come si può dimostrare concretamente che “falegname” è più bello di “marangòn” o che “mi ricordo” è più illustre di “Amarcord”? L’idea stessa di stabilire quale sia il volgare più illustre cui affidarsi abbandonando completamente, se non addirittura combattendo, ogni altro idioma ha di fatto generato la diffusa e pericolosa convinzione che gli altri volgari, dal secondo classificato in poi, non solo non abbiano diritti di sorta, ma siano di fatto un peso, se non addirittura una danno, persino qualcosa di cui vergognarsi. Si è così rapidamente persa la percezione di quale inestimabile ricchezza rappresenti la varietà linguistica, senza accorgersi che costringersi tutti ad un unico registro, per quanto lo si spacci per illustre, è indice di pochezza colturale. Verrebbe da dire che il mondo è bello perché è vario, alla faccia di Dante.
Per individuare quindi il volgare più bello ed illustre, Dante descrive e giudica i 14 volgari principali che ha individuato. Tutti i volgari esaminatati non solo son scartati, ma in modo assai brutale vengono pesantemente disprezzati, un vero e proprio linciaggio. I primi a cadere sotto la mannaia dantesca sono i Romani (Libro 1, cap. XI) la cui lingua, è definita “la più turpe di tutta italia, non un volgare, ma un turpiloquio, la più turpe tra i volgari italiani” (DICIMUS IGITUR ROMANORUM NON VULGARE, SED POTIUS TRISTILOQUIUM, YTALORUM VULGARIUM OMNIUM ESSE TURPISSIMUM). Al disprezzo per la lingua si accompagna talvolta anche il disprezzo per il parlante tanto che, sempre per i Romani, Dante ha parole assai dure definendoli i peggiori d’italia anche per costumi e abitudini (NEC MIRUM, ***** ETIAM MORUM HABITUUMQUE DEFORMITATE PRE CUNCTIS VIDEANTUR FETERE).
Nel confezionare i suoi superficiali giudizi Dante accompagna il disprezzo con una buona dose di derisione e scherno, basti ricordare che per scartare un volgare assai spesso si limita a citare una canzone giullaresca composta per deridere chi usa quel dato volgare: è la sorte che tocca a Bergamaschi e Milanesi “e loro vicini” che devono essere letteralmente “estirpati”, perché a loro derisione “qualcuno”, di cui Dante neppure conosce il nome, scrisse la canzone che recita:
“Enter l’ora del vesper, ciò fu del mes d’ochiver”.
Cosa ci sia di comico in tutto ciò francamente sfugge, chissà se almeno all’epoca faceva davvero sbellicare dal ridere. Sembra comunque che per i Fiorentini dell’epoca fosse una pratica assai comune quella di comporre canzoncine derisorie se il padano Salimbene de Adam nella sua “Cronica” scrive di tal Boncompagno che era un “grandissimo dileggiatore come sogliono esserlo i Fiorentini” concetto ribadito più oltre parlando di Fra Diotisalvi da Firenze “che era un gran beffeggiatore come sogliono esserlo i Fiorentini”.
È interessante notare come questo stesso gioco al massacro sia ancora ben praticato ai giorni nostri dagli italici eredi di Dante, fiorentini o meno che siano, i quali non risparmiano sarcasmo e disprezzo a chi osa esprimersi in maderlèngua, specie se padana: pensiamo all’esempio più eclatante rappresentato dai programmi televisivi, dove le nostre maderlèngue trovano spazio solo per caratterizzare personaggi ridicoli o meschini, oppure pensiamo alle scuole, agli uffici pubblici, dove l’uso delle maderlèngue costituisce sempre e comunque colpa e reato.
Persino i termini che Dante usa per demonizzare le nostre maderlèngue sono rimasti invariati nei secoli. Ancor oggi infatti non è difficile sentir definir “rozze” le nostre parlate purtroppo anche dagli stessi padani che quotidianamente le usano; analogamente Dante (Libro I, cap. XIV) definiva, ad esempio, il volgare di “quanti dicono magara ”, ovvero Bresciani, Veronesi, Vicentini, Trevigiani e loro vicini “irsuto ed ispido” (YRSUTUM ET YSPIDUM), un volgare che “a causa della sua rozza asprezza una donna che lo parli non solo è fuori luogo, ma la si può persino scambiar per un uomo” (QUOD PROPTER SUI RUDEM ASPERITATEM MULIEREM LOQUENTEM NON SOLUM DISTERMINAT, SED ESSE VIRUM DUBITARES).
Non può mancare infine l’accenno ai barbari, così che i luoghi comuni ci sian proprio tutti; in quest’ottica una particolarità linguistica padana, un vero e proprio tratto distintivo delle maderlèngue padane, ovvero la f al posto dell’italica v, (ad esempio nif, invece di neve) è definita un “barbarismo”, mentre l’asprezza e la durezza delle parlate lombarde, (nel senso storico del termine, oggi diremmo padane) sarebbe dovuta alla presenza dei Longobardi.
Barbari a parte, sempre a Dante dobbiamo far risalire quella convinzione ancora oggi assai diffusa che vuole le nostre maderlèngue suddite e dipendenti dall’italiano. Scrive infatti al capitolo XV che il volgare illustre di cui è alla ricerca deve essere “cardinale” (cap. XVIII), ovvero deve agire come il cardine di una porta, il quale, quando funziona correttamente, è in grado di trascinar con sé tutto il serramento. Il volgare illustre proposto da Dante deve essere il vero “paterfamilias” così che il “gregge dei volgari” seguendo l’esempio di questo “si giri e si rigiri, si muova e si arresti”. (NAM SICUT TOTUM HOSTIUM CARDINEM SEQUITUR UT, QUO CARDO VERTITUR, VERSETUR ET IPSUM, SEU INTRORSUM SEU EXTRORSUM FLECTATUR, SIC ET UNIVERSUS MUNICIPALIUM GREX VULGARIUM VERTITUR ET REVERTITUR, MOVETUR ET PAUSAT SECUNDUM QUOD ISTUD, QUOD QUIDEM VERE PATERFAMILIAS ESSE VIDETUR).
È stato ampiamente dimostrato, ovviamente dalla linguistica internazionale, che tra le nostre maderlèngue e l’italiano non vi è affatto alcun rapporto di dipendenza, ma neppure di parentela linguistica particolarmente stretta, tanto che il veneziano, il cuneese, il bergamasco, il bolognese o il savonese, per fare alcuni esempi, hanno maggiori legami con il Portoghese di quanti non ne abbiano con il Toscano, ovvero l’Italiano.
Se infatti si considera la Romània (con l’accento sulla a), ovvero quel territorio in cui si parlano le lingue romanze, le lingue derivate dal latino, si nota che la stessa è divisa in tre aree distinte: la Sardegna , la Romània orientale e la Romània occidentale. Il confine tra le due Romànie passa lungo la linea Massa – Senigallia, anche se purtroppo sembra che nessuno in italia se ne sia mai accorto, tanto che non solo le nostre maderlèngue sono ancora impropriamente definite dialetti, ma, peggio ancora, sono considerate dialetti dell’italiano, lingua con cui in realtà han ben poco a che spartire. Prestigiosi linguisti italiani preferiscono non affrontare la questione o, se proprio devono, spesso e volentieri si rifanno ad argomenti extralinguistici per giustificare ciò che linguisticamente non ha giustificazione alcuna. Ad esempio, per Giovan Battista Pellegrini fanno parte dell’italoromanzo “le svariate parlate della penisola e delle isole che hanno scelto già da tempo come lingua guida l’italiano”6. Magari avessimo potuto scegliere, in ogni caso appare evidente come ancora una volta l’italiano sia considerato “paterfamilias”, il cardine che ci guida; sono evidenti i limiti di questo modo di ragionare, basti dire che così facendo il Corso, una originale versione del toscano, quindi dell’italiano non può che essere un dialetto del Francese!
Sempre in tema di “paterfamilias” pensiamo anche ai tanti grammatici dialettali che nel loro piccolo si rifanno, in caso di dubbio, sempre e comunque alla grammatica italiana.
Disprezzo e sarcasmo, dipendenza e subalternità non sono però sufficienti e così Dante si spinge a teorizzare un vero e proprio genocidio linguistico e culturale. Dante assegna infatti al volgare illustre il compito di “estirpare ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica” e allo stesso scopo devono dedicarsi i poeti “giardinieri”, che “come agricoltori devono quotidianamente sradicare e trapiantare”. (NONNE COTIDIE EXTIRPAT SENTOSO FRUTICES DE YTALIA SILVA? NONNE COTIDIE VEL PLANTAS INSERIT VEL PLANTARIA PLANTAT? QUID ALIUD AGRICOLE SUI SATAGUNT NISI UT AMOVEANT ET ADMOVEANT, UT DICTUM EST?).
Uno dei miglior “giardinieri” che l’italia ricordi è stato Ettore Tolomei7 che con il suo “Prontuario” ha terrorizzato la toponomastica tirolese, basti dire che in nome dell’italianità i Tirolesi furono costretti a tradurre in italiano e con effetto retroattivo anche i nomi di battesimo tedeschi riportati sulle tombe dei loro defunti8. Senza giungere ad esempi così odiosi vale la pena di ricordare che in Padania stanno “estirpando” da lungo tempo e molto purtroppo è gia stato “estirpato”: basti pensare all’italianizzazione dei nomi di battesimo e dei cognomi, alla perdita totale dei soprannomi che contraddistinguevano le nostre famiglie, all’italianizzazione dei toponimi9 compiuta dall’Istituto Geografico Militare, ma soprattutto all’azione dell’apparato statale che tramite scuole ed esercito prima e televisione poi ha di fatto sradicato le maderlèngue padane per trapiantarvi l’italiano.
È un processo che parte da lontano infatti già a partire dagli esordi dell’unità d’Italia, quando secondo Tulio de Mauro solo il 2% della popolazione conosceva l’italiano, si diffondono, ad esempio, una serie di vocabolari “dialetto – italiano” che hanno il chiaro obiettivo di “insinuare per tutta la penisola le buona e viva odierna favella Toscana” ricercando nelle traduzioni dei vocaboli “la precisa e viva corrispondenza toscana”. Così si era stabilito al “Congresso di generale di Siena (anno 1862)” come riportato nell’introduzione del Tiraboschi, vocabolario Bergamasco – Italiano. Gli esiti sono spesso spassosi o se preferite penosi: capita ad esempio che una “cagnada”, ovvero una cosa fatta male, letteralmente fatta da cani, venga tradotta con “Pippionata” e “Pappolata”, oppure che “bagadùr” o “biidur” cioè il bevitore incallito diventi il “Tracannatore”, il “Cinciglione”, il “Cioncatore”, il “Secchione”, ecc.
La sistematica azione di estirpazione che ci ha colpito è stata così suadente che gli stessi Padani son spesso ancora convinti che le loro maderlèngue siano il male che ci ostacola sulla strada del bene rappresentata dall’italiano. Mi sia permesso citare un esempio estremamente significativo ricavato dalla mia vita famigliare: ricordo che mia nonna, Elisabetta Roncelli, classe 1912, nata a Bèrghem, in tutta la sua vita mi ha rivolto, anche se spesse volte, soltanto due parole in italiano “Parla l’italiano… perché senò a scöla te fèt i erùr”.
Non si dimentichi infine che Dante suggerisce di esprimere i pensieri più alti nella lingua più alta. A parte un po’ di vertigini, l’estensione di questo ragionamento ha portato nei secoli a ritenere che le lingue ritenute “inferiori”, ovvero le nostre maderlèngue, non solo non fossero all’altezza dei pensieri più alti, ma che addirittura non fossero neppure in grado di affrontare argomenti prestigiosi come filosofia, medicina, teologia tanto che si dice: “in dialetto si può parlar a Dio, ma non di Dio”. Non è difficile smentire questa sciocchezza con due veloci esempi: l’abate Rota nel 1700 scriveva trattati di teologia in bergamasco, mentre di recente “ la Usc de l’Insubria” ha affrontato con chiarezza e precisione complicati argomenti scientifici (www.giurnal.org).
Va anche sottolineato che la critica di Dante, benché non risparmi nessuno, è per lo più incentrata contro le maderlèngue padane; infatti mentre gli altri idiomi vengono per lo più giudicati nel loro complesso, come capita agli idiomi dell’Apulia, le maderlèngue padane vengono abbondantemente prese di mira con precisione sistematica una dopo l’altra, tanto che Dante trova spazio e tempo per colpire Bergamo, Milano, Aquileia, l’Istria, Brescia, Verona, Vicenza, Padova Treviso, Venezia, Ferrara, Modena, Genova, Imola, Trento, Torino ed Alessandria. Un comportamento decisamente antipadano ed è così ancor oggi perché in definitiva i “dialetti” son considerati rozzi solo se parlati nel cosiddetto “Nord Italia”.
Se giunti a questo punto qualche lettore sente nascere in sé una certa antipatia per i Toscani ed il Toscano sappia che non potrebbe commettere errore più grande e non solo perché è merito del toscano Sergio Salvi quel piccolo capolavoro che va sotto il nome de “La lingua padana e i suoi dialetti”, ma perché Dante stesso non intendeva affatto, almeno nel De Vulgari Eloquentia, promuovere il Toscano a scapito delle altre parlate, anzi le parole più dure forse le riserva proprio ai suo conterranei.
Per Dante infatti (cap. XIII) i Toscani, sono “rincretiniti dalla loro stupidità” (PROPTER AMENTIAM SUAM INFRONTITI) al punto da ritenere il loro volgare più illustre e in questo atteggiamento “da pazzi strepitano più degli altri” (…TUSCI PRE ALIIS IN HAC EBRITATE BACCANTUR).
Rimane così da chiedersi quale sia in realtà il volgare illustre di Dante se neppure il Toscano va bene. Il volgare che Dante vuole proporre è un volgare “illustre, cardinale, regale e curiale”, è un volgare che “è in ogni città italiana, ma non sembra appartenere a nessuna”.
Una definizione un po’ misteriosa che però diventa facilmente comprensibile quando Dante in più punti ci segnala i pochi che sanno padroneggiare questo volgare illustre. Scrive infatti sempre al capitolo XIII: “se tuttavia quasi tutti i Toscani sono rinstupiditi nel loro turpiloquio, sappiamo come Guido, Lapo ed un altro, fiorentini, e Cino di Pistoia abbiano raggiunto l’eccellenza nell’uso del volgare” (SED QUANQUAM FERE OMNES TUSCI IN SUO TURPILOQUIO SINT OBTUSI, NONNULLOS VULGARIS EXCELLENTIAM COGNOVISSE SENTIMUS SCILICET GUIDONEM, LAPUM ET UNUM ALIUM, FLORENTINOS, ET CYNUM PISTORIENSEM) mentre in altri passaggi più volte cita “Cino ed il suo amico”. Ma chi è “l’altro”? E chi è “l’amico di Cino”? Ovviamente Dante che parla di sé in terza persona e non esita a citar versi delle sue poesie.
Con falsa modestia Dante ci sta quindi dicendo che il volgare illustre che si cerca è il suo, ci indica gli unici che possono padroneggiarlo, ovvero lui ed i suoi amici. Il De Vulgari Elquentia quindi, più che un trattato scientifico ed oggettivo, cui credere e rifarsi è una sorta di medioevale operazione d’immagine, uno spot pubblicitario ante litteram, dove autopromozione ed autocelebrazione si confondono: basti pensare che Dante scrive ampiamente di sé sottolineando tra l’altro come, nonostante l’esilio, la sua attività letteraria gli abbia conseguito onori ben superiori a quelli che si tributano ai re.
In quest’opera di autopromozione sta la modernità e la genialità di Dante; il dramma vero è che in molti purtroppo hanno preso alla lettera le sue parole e ancora oggi cercano di “estirpare” le nostre maderlèngue dalla “selva italica”.
NOTE
1. Sono noti solo tre manoscritti del De Vulgari Eloquentia redatti nel Trecento, nessuno risalente al Quattrocento, mentre nel 1529 Trissino fa stampar la prima copia del De Vulgari Eloquentia in volgare.
2. Gerhard Rohlfs, “Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia”, Sansoni, Firenze, 1972, pp. 4 – 5 e pp. 157 – 158.
3. Si veda, ad esempio, Geoffery Hull, The linguistic unity of Northern Italy and Rhaetia, PhD thesis 1982 university of Sidney west; Claudi Meneghin: Rebuilding the Rhaeto-Cisalpine written language, guidelines and criteria. Part I, Ianua - revista Philologica Romanica
N.o 7, 2007.
4. Giulio Ferroni in “Storia della letteratura italiana. – Dalle origini al Quattrocento” scrive a pagina 66 e seguenti che la classificazione delle lingue proposta da Dante nel De Vulgari Eloquentia “a parte la distinzione tra lato destro e sinistro della penisola e la necessità di operare ulteriori distinzioni e precisazioni corrisponde in linea di massima ai risultati della moderna dialettologia”.
5. Walther von Wartburg, La disarticolazione degli spazi linguistici romanzi, 1950, ma soprattutto Heinrich Lausberg, Linguistica romanza, 1969. Il primo introduce il concetto di Romània orientale ed occidentale, il secondo individua una lingua a sé stante che chiama Italiano settentrionale.
6. In “Dialetto, dialetti, italiano” di Carla Marcato.
7. Ettore Tolomei “l’uomo che celebrava sé stesso come l’inventore dell’Alto Adige” nacque a Rovereto nel 1865. Spese la sua vita ad italianizzare il Sud Tirolo che denominò prima “Alto Trentino” e poi a partire dal 1906 “Alto Adige” riciclando un vecchio toponimo napoleonico. Nonostante nelle sue “Memorie” si possa leggere che “il poco tedesco imparato al ginnasio l’avevo scordato (…) e non ci capivo un bel nulla” si dedico a lungo a recuperare l’originaria versione italico – latina di nomi, cognomi e toponimi tirolesi (in realtà si trattò per lo più di vere e proprie invenzioni) che raccolse nel suo “Prontuario”. Sempre nelle sue “Memorie” vi è un capitolo intitolato il “Lavacro dei nomi” in cui sostiene che ben l’80% dei cognomi tirolesi erano di origine latina e che i Tirolesi spontaneamente chiedevano di cambiare ed italianizzare il loro cognome. Per capire la logica che animò Tolomei si consideri anche che nel 1904 si inventò la prima ascesa di una cima alpina che battezzò “Vetta d’Italia”, cima che in realtà era già stata scalata da Fritz Kögl nel 1895 e che era già nota come “Glockenkarkopf”; ma ciò fu per lui e per molti suoi contemporanei un valido pretesto per pretendere che l’Italia si estendesse fino alla presunta Vetta d’Italia. Gatterer Claus “In lotta contro Roma”, edizione in italiano, Praxis 3, 1994, Bolzano.
8. “Dal Novembre del 1927 in Sud Tirolo come nella Venezia Giulia fu vietato l’uso di iscrizioni tombali che non fossero italiane, nomi di battesimo compresi e con effetto retroattivo (…) fino al 28 Ottobre 1923”. Pag. 555, Gatterer Claus “In lotta contro Roma”, edizione in italiano, Praxis 3, 1994, Bolzano.
9. A questo riguardo si vedano “Il vero nome dei nostri paesi” pubblicato a puntate sui Quaderni n° 6 e segg. e “I nomi della nostra gente” pubblicato a puntate sul n° 12 e segg.
Note: Autore: Gioàn di Benècc (Gioànfrancèsh Rügér)
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Posted on Monday, April 21 @ 10:42:55 CEST by dragonot |