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Tavo Burat - l'amore per le piccole lingue di Gioancarlo Giaàss
 
Tavo Burat - l'amore per le piccole lingue
La biodiversità linguistica è un patrimonio dell'umanità da difendere




Umberto Zanetti, in qualità di direttore del corso di lettere dell'Ateneo di Scienze, Lettere e Arte di Bergamo, ha avuto l'onore e l'allegrezza di portare ancora una volta a Bergamo, una personalità tra le più autorevoli e sensibili nella difesa delle lingue e culture minacciate: Tavo Burat.
Gustavo Buratti Zanchi, piemontese residente a Chiavazza (piccolo borgo della città di Biella) è nato settantadue anni fa in terra bergamasca, a Stezzano, località dove spesso è tornato, soprattutto durante l'infanzia, presso la casa materna, la prestigiosa villa Zanchi-Caròli.
Nella bellissima e articolata lezione dal titolo "DIALETTO E LINGUA: RIFLESSIONI EPISTEMOLOGICHE", promossa e organizzata dall'Ateneo bergamasco alla metà d'ottobre del 2004, Tavo Burat ha con passione reso partecipe il pubblico bergamasco, accorso nella ex sala consigliare di via Tasso, del prezioso valore storico e antropologico rappresentato da tutte le culture che abitano il nostro pianeta, e di cui ogni singola lingua (con o senza letteratura), insieme all'arte e all'architettura specifiche di quel popolo, rappresenta sicuramente l'elemento più originale e autentico.
Per agevolare il discorso e renderlo più comprensibile all'auditorio, la disamina linguistica si è esemplificata sulla ricchezza e pluralità delle lingue romanze (europée), di cui il bergamasco fa parte a pieno titolo, "figlio", al pari del francese, di quel latino diffusosi con l'impero romano e parlato progressivamente e in maniera diversificata dai vari popoli sottomessi, che abitavano l'Europa.
Con precisione e chiarezza, Tavo Burat ha fatto piena luce sul falso binomio lingua/dialetto, che a tutt'oggi intorbida (a oltre cinquant'anni dalla promulgazione della Costituzione Repubblicana, e senza ormai più l'alibi dello Stato Unitario voluto dalla Monarchia Sabauda) il dibattito politico e culturale nello Stato Italiano, esaminando la "falsa coppia" nei suoi tre aspetti fondamentali: quello socio-linguistico, quello letterario e quello giuridico (di quest'ultimo se ne parlerà specificatamente in un prossimo articolo).
Sotto il profilo socio-linguistico, la differenza tra lingua e dialetto si sostanzia esclusivamente in ragioni di carattere geo-politico, in quanto da un punto di vista propriamente tecnico-scientifico i linguisti non riescono a distinguere una lingua da un dialetto.
Un "dialetto" è pertanto esattamente tale e quale a una lingua, che però trova (da un punto di vista sociologico) solo porte chiuse: le porte chiuse dell'amministrazione pubblica, le porte chiuse della scuola e le porte chiuse della chiesa.
Infatti, sotto l'aspetto diacronico, cioè nel corso della storia, ci sono idiomi che sono stati un tempo lingue, poi sono decaduti a dialetti, per poi tornare ad essere lingue pienamente riconosciute. È il caso del provenzale che è stato la lingua europea più alla moda nel Duecento, utilizzata dai cosiddetti poeti trovatori, dalla Sicilia all'Inghilterra, dal Portogallo all'Ungheria.
Quando poi ci fu la conquista da parte dei re capetingi del sud di quella che oggi chiamiamo Francia, col pretesto di reprimere l'eresia albigese o càtara, furono, per ragioni di controllo politico e colonialismo culturale, bandite la cultura e la lingua d'oc. Cosicché il provenzale è decaduto nei secoli successivi a lingua popolare, cioè adoperata esclusivamente dalle classi sociali più povere: pescatori, pastori e contadini.
Il genio di Federico Mistral (premio Nobel nel 1904), con l'impegno comune dei suoi numerosi discepoli, ha riportato il provenzale o lingua d'oc (oggi da taluni detta occitano) al rango di lingua colta e di prestigio, cioè agli onori della poesia e dell'arte.
Anche da un punto di vista sincronico, cioè esaminando uno stesso periodo storico, possiamo vedere come l'idioma che in un luogo viene considerato una lingua, altrove viene ritenuto un semplice dialetto. È il caso per esempio dell'olandese che nei Paesi Bassi è una lingua ufficiale, cioè di stato, mentre oltrepassato il confine con la Germania, pochi chilometri più a est, lo stesso idioma, molto frazionato sul territorio, è considerato solo un dialetto.
E lo stesso avviene per il portoghese tra Portogallo e Galizia; è avvenuto per il catalano, dialetto bandito e proibito sotto la dittatura franchista in Catalogna, e invece lingua ufficiale nel minuscolo stato d'Andorra; e ancora per il lussemburghese, a seconda che esso sia parlato dentro o fuori del Principato del Lussemburgo.
Non è possibile pertanto, da un punto di vista scientifico, incasellare un idioma come lingua o dialetto; la differenziazione è puramente geo-politica.
I parlari regionali d'Italia, come il veneto, il piemontese, il sardo sono pertanto, al pari del portoghese, del catalano, del provenzale o del rumeno, dialetti del latino, parlate romanze che non derivano dall'italiano.

Ma in proposito leggiamo direttamente alcuni passaggi esemplari dell'esposizione di Tavo Burat, che suoneranno senz'altro sgraditi ai tanti politici "ignoranti" o in malafede, che dal dopo guerra fino ad oggi hanno osteggiato in ogni modo l'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione per la tutela di tutte le lingue storiche o di minoranza del territorio dello Stato, e, forse, saranno ancor di più "indigesti" per quell'intellighenzia codina e "profumatamente pagata" dallo Stato Centralista e Unitario, la quale occupa gli scranni più alti delle nostre Università di lingue e letterature, e da cui si continua ad orientare i programmi e definire i curricoli scolastici per i nostri figli, escludendo con sufficienza, se non con disprezzo, le millenarie lingue locali (regionali o di minoranza) del territorio.

"La verità è che per quanto riguarda i nostri parlari, questi non sono evidentemente dialetti, nel senso di un italiano parlato in modo diverso. Essi sono caso mai dialetti del latino, non sono assolutamente un italiano malparlato.
Diciamo piuttosto che i veri dialetti dell'italiano stanno nascendo ora, e sono i diversi modi di parlare l'italiano (i cosiddetti italiani regionali ndr.): è l'italiano parlato a Firenze, che è diverso da quello parlato a Roma, oppure a Napoli, o a Palermo, e ancora, dall'italiano parlato a Milano.
Essi si differenziano foneticamente per le cadenze (l'armonia musicale), e per gli accenti: ad esempio al nord si dice "io vado béne in biciclètta", mentre al centro-sud si sente "io vado bène in biciclétta".
Dal punto di vista lessicale, a Livorno, per esempio, troviamo insegne con la dicitura "misticheria" (che indica un negozio che vende colori); oppure si considerino i termini della gastronomia che sono legati alle diverse realtà regionali; da un punto di vista strutturale: al nord (indicativamente sopra la cosiddetta linea La Spezia - Rimini ndr.) nella declinazione dei verbi non si adopera quasi mai il tempo passato remoto a favore del passato prossimo, mentre al sud avviene esattamente il contrario; ancora, al sud è frequente l'uso dei verbi stare e tenere come sostitutivi di essere e avere.
Questi sì sono i veri dialetti italiani, che rappresentano il diverso modo di parlare l'italiano, e che nascono praticamente dall'unità d'Italia ad oggi, considerato che nel 1861, solo l'1,5% della popolazione parlava l'italiano. L'italiano all'epoca era una lingua scritta, che nessuno parlava, tanto è vero che anche coloro che lo scrivevano, parlavano poi quotidianamente nell'idioma regionale."

"Tutti gli idiomi in partenza hanno la stessa dignità. Se noi cominciamo a dire che uno vale più di un altro siamo veramente dei razzisti perché non c'è niente di peggio che fare classifiche tra culture per essere dei razzisti.
Come faccio a dire che la mia cultura vale di più della tua, quando una cultura è l'espressione di un modo di vivere (in un determinato contesto ambientale), di un'eredità, di sentimenti, di una visione del mondo che è sua particolare. Come si può allora dire che una valga più di un'altra. È una pretesa assurda!"

"Ci fu una polemica anni fa sul Corriere della Sera suscitata dal professore di estetica Gillo Dorfles, il quale sostanzialmente pretendeva che non si potesse scrivere Poesia nella propria lingua, se prima questa non avesse ricevuto la "patente di lingua ufficiale": ma dove è mai scritto questo?
Come si può accedere a una teoria del genere!
E purtroppo anche la Chiesa Cattolica si è messa in quella direzione: infatti se il Concilio Vaticano II ha consentito l'ammissione delle lingue volgari alla liturgia, queste però devono essere quelle riconosciute dagli Stati; come se il Padre Eterno potesse valutare delle patenti del genere.
Tra l'altro a me pare un atteggiamento di palese contraddizione in quanto proprio il Vangelo è un'opera veramente dialettale, nel senso che si può esprimere in tutte le più piccole lingue del mondo, tenuto conto che nasce dalla necessità di portare a tutti la buona novella, in particolare alla povera gente."

"Evidentemente è vero, i nostri parlari si indeboliscono sempre di più; sono malati, sono gravemente malati; ma questo non impedisce di amarli.
Così come quando c'è una persona malata gli affetti si stringono ancora maggiormente intorno a lei e siamo tutti più uniti.
Di più, noi tutti che siamo qua oggi, quando siamo ammalati chiamiamo un medico, e non diciamo "è inutile chiamarlo perchè tanto devo morire"; fin quando uno è vivo ha il diritto di vivere; anzi quando uno è ammalato oltre al diritto di cittadino assomma anche il diritto di malato, che è quello di essere curato. Dunque le amministrazioni pubbliche si devono far carico di questo servizio: se le nostre lingue sono ammalate, curiamole!
Certo tutto è destinato a morire, tutto quanto - io sono un ecologista e sono favorevole a salvare gli ultimi quattro orsi del Tentino, magari facendoli incrociare con quelli della Slovenia - ma come è possibile allora che da una parte salviamo gli orsi e i lupi, e dall'altra non dobbiamo far niente per un'architrave così importante come quella che abbiamo ereditato, che tiene su tutta una costruzione, che si è formata nel corso dei secoli. Ma dico, come si può buttar via una cosa di questo genere!"

"Pensiamo alla sapienza dei nostri montanari che sapevano vivere in un luogo e con un luogo; sapevano trarre tutto quello che necessitava dall'ambiente senza danneggiarlo in uno sviluppo che era veramente sostenibile. Ma tutto questo sapere è legato con la lingua, è legato alla dignità e all'identità, e quando si finisce col perdere, con lo svuotarsi allora la prima valanga finirà col portare via tutto, anche la spiritualità e la voglia di rimanere e di lavorare sul territorio.
Allora il nostro non è soltanto un sogno di poeti, ma è anche una questione di libertà e di giustizia."









Gioancarlo Giaàss
Bèrghem, ol vinte-sèt de zenér del duméla e sich

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Pubblicato su: 2024-08-30 (35 letture)

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