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LA LINGUA “PADANESE” - I-a parte




Questo articolo è stato pubblicato sul n° 13 di "Etnie" (1988), con la seguente presentazione: Pubblichiamo ... l’estratto di un interessante, approfondito e straordinariamente documentato saggio, opera del prof. Geoffrey Hull, docente all’Università di Melbourne: testimonianza sorprendente di come il problema delle lingue minoritarie (anche di quelle ostinatamente negate dalla ignorante ufficialità politica romana) sia ormai al centro dell’attenzione dei più illustri ricercatori, e per di più in un Paese geograficamente così lontano da noi.


LA LINGUA “PADANESE”

Nell’isolare dal sistema linguistico italiano le parlate ladine, Ascoli lasciò in un limbo terminologico i dialetti che il Biondelli, trent’anni prima, aveva denominato “gallo-italici”. (1) Secondo l’illustre dialettologo goriziano, il piemontese, il ligure, il lombardo e l’emiliano-romagnolo “si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte di alcun sistema neolatino estraneo all’italia”. (2) Durante i primi decenni dell’unità nazionale i glottologi provarono a definire più chiaramente lo status del “gallo-italico” nei confronti del ladino da un lato e dei dialetti peninsulari dall’altro. In quell’epoca di nazionalismo esasperato era difficile che l’indagine non assumesse toni politici. Parecchi studiosi infatti si sentivano in dovere di dimostrare a priori l’italianità sia del gallo-italico sia del ladino, mentre l’insistenza di altri linguisti (soprattutto germanofoni) sulla fisionomia palesemente galloromanza dei due gruppi non poteva allora non sembrare colorita di pregiudizi antirisorgimentali. (3) Che la lingua indigena della Val Padana, regione da considerarsi la pietra angolare dell’unità italiana, potesse risultare dall’analisi strutturalista sorella del francese e solo cugina del toscano era per molti una considerazione tanto intollerabile quanto eretica. Venne dunque canonizzato un sistema di classificazione specificamente italiano e ribadito più dalla tradizione classicista che dal metodo scientifico in base al quale “italiani” (o “italoromanzi”) risultavano quei dialetti che si erano da tempo subordinati al toscano letterario. (4) Secondo un tale criterio un dialetto come l’emiliano o il ticinese, che condivide tutte o quasi tutte le caratteristiche fondamentali col francese, poteva definirsi senza tema di errore “italiano”. Per chi non accetta la tesi italianista la denominazione di “gallo-italico”, applicata a vernacoli parlati sì in territorio politicamente italiano ma a nord della nota linea La Spezia-Rimini, rimane inesatta nonché ingannevole. Anche ammettendo l’importanza psicologica dell’orientamento culturale, è difficile capire come sia possibile dedurre da aspetti secondari (che costituiscono d’altronde solo una patina di “superstrato”) che tale dialetto sia strutturalmente italoromanzo: nessuno si sognerebbe per esempio di definire il corso dialetto galloromanzo a cagione degli influssi genovesi e poi francesi che lo trasfomano da secoli. Riteniamo dunque sostanzialmente giusto il giudizio dei vari specialisti di glottologia romanza che considerano il cosiddetto “alto-italiano” come parte integrante del sistema galloromanzo e parente stretto del francese (incluso il franco-provenzale) e dell’occitano catalano. (5) E diremmo con Pierre Bec che il termine “gallo-italico” va corretto in “galloromanzo cisalpino” o “galloromanzo italiano” (qui “italiano” si intende in senso rigorosamente extralinguistico).

La classificazione spoliticizzata dei dialetti della Padania ha inevitabilmente modificato la concezione del ladino come unità linguistica indipendente dal “ramo padano dell’italoromanzo”. Anche i ladinisti più accaniti hanno potuto trascendere la loro posizione di difesa di una favella che sin dal Medioevo si era sviluppata fuori dalla sfera culturale italiana, col guardare oltre gli italianismi superficiali dei dialetti della pianura. Molti di loro si sono infatti dichiarati aperti alla tesi di un’originaria unità reto-cisalpina, a patto che si rinunci a ogni tentativo di collegare questo sistema all’italiano vero e proprio. (6) Si ammette che la “conquista toscana” della Val Padana nel Rinascimento abbia portato a una certa italianizzazione del vernacolo galloromanzo (o potremmo dire, ladino) di questa zona (7), e che sono appunto le aree marginali chiamate più tardi “Ladinia” che conservarono incontaminata (prescindendo da forti influssi tedeschi nei Grigioni e nel Tirolo) l’originaria tradizione linguistica della Padania. Nel 1982 ho presentato una tesi di dottorato di ricerca col titolo inglese di The Linguistic Unity of Northern Italy and Rhaetia in cui ho tentato di delineare lo sviluppo storico e la fisionomia attuale dei dialetti ladini e padani. (8) L’ipotizzata unità l’ho ribattezzata “padanese”, coniazione che si vuol riferire alla Padania linguistica anziché geografica (cioè all’anfizona reto-cisalpina) e necessitata dal fatto che l’aggettivo padano indica proprianiente la lingua di solo il bacino del Po.

LA PADANIA: TERRA GALLICA NEL MONDO ITALICO

È risaputo che nella struttura etnica dell’Italia la principale linea divisoria coincide quasi perfettamente con il crinale degli Appennini tosco-emiliani. A nord di questa linea si era stabilita in tempi antichi una popolazione celtica o celtizzata la cui terra fu chiamala Gallia Cisalpina dai Romani che la conquistarono fra il 193 e il 78 a.C. Venti secoli più tardi l’antropologia della Padania è poco cambiata, nonostante la profonda romanizzazione della zona e la seriore affermazione di una civiltà tosco-italiana: razza compattamente brachicefalica anziché mesocefalica o dolicocefalica come nella Penisola; abitazioni popolari di tipo alpino o subalpino anziché mediterraneo; consumo di prodotti bovini anziché ovini e cottura al burro anziché all’olio; canto polifonico, sillabico e narrativo anziché solistico, melismatico e lirico; coscienza linguistica e filosofica tendenzialmente analitica anziché sintetica, e così via.

La suddivisione dell’Italia in due diocesi (con le capitali rispettive a Roma e a Milano) compiuta da Diocleziano nel 298 d.C. non solo mise in rilievo le esistenti differenze etniche e ambientali delle due Italie, ma inserì la Padania pienamente nel nuovo e opulento mondo galloromano che aveva da tempo eclissato Roma e il suo retroterra peninsulare. Ciò è confermato tra l’altro dalla tradizione scolastica latina che si mantenne più salda in Padania che nella Penisola e dal prestigio della chiesa ambrosiana nei cui santuari si celebrava una liturgia di tipo gallicano piuttosto che romano e i cui fedeli erano stati convertiti “freschi” dal paganesimo e non tramite un elemento cristiano greco nella popolazione locale. Si svilupparono quindi nell’Italia continentale dialetti di stampo galloromanzo che non dovevano essere diversi in nessun particolare importante dal proto-francese. Al potente superstrato franco della Francia settentrionale corrisponde in Padania la doppia presenza longobarda e franca. Nel tardo Medioevo si erano diffuse nel Nord le lingue letterarie francese e provenzale che erano così accessibili ai cisalpini da ostacolare, alla vigilia del “miracolo fiorentino”, la formazione di una genuina e duratura koiné padana. (9)

Se i Longobardi non avessero aggregato la Toscana al loro regno padano è chiaro che sarebbero sorte due nazioni sul territorio dell’italia augustea, così diverse fra di loro come la spagnuola e la francese. Legata politicaniente e culturalmente al Nord, la Toscana, regione “meridionale”, si andò arricchendo di correnti provenienti dalla Gallo-romania. Il suo dialetto, pur conservando la sua struttura italoromanza, s’intrise di elementi padani. Ne risultò una trasformazione fisionomica che consentl al toscano di diventare la perfetta koiné italica e, con l’ascesa dei grandi autori fiorentini, la sola lingua letteraria capace di riunire in un’unica nazione ideale la Padania gallica e le terre toscoitaliche ed elleniche della Penisola e delle Isole. La fiorente civiltà comunale della Padania medioevale è, per altro, inseparabile dal coevo fenomeno toscano. Si era infatti formata una sfera di cultura tosco-padana nella quale Firenze assunse presto il predominio, tant’è vero che quasi l’intera Padania accolse senza esitazioni la civiltà rinascimentale irradiata dalla Toscana, e rinunciò - pare per sempre - a ogni vera ambizione di crearsi una propria lingua letteraria comune radicata nella parlata materna. Nell’ambito di questa moderna Italia la Padania fu destinata a rimanere una provincia di carattere ambiguo: italiana di cultura elevata, ma galloromana nelle sue tradizioni popolari. Solo i futuri Ladini, cioè i “lombardi” delle zone alpine dominate dagli Alemanni e dai Bavaresi, si erano sottratti a questo processo centrifugo.

Oggi i padani si definiscono spontaneamente italiani settentrionali, sentendosi infatti così italiani da poter asserire sciovinisticamente che “l’Italia finisce al Po” o perlomeno “agli Appennini”. Non manca chi ritiene che la stessa nozione di un’etnia padana distinta da quella italiana sia del tutto assurda. (10) Pur essere anche vero. Nondimeno rimangono saldissimi i tratti distintivi della lingua ereditaria di questi “italiani settentrionali”, la quale, dopo quattordici secoli di simbiosi tosco-padana, si mantiene più galloromana che mai. Diremmo inoltre che la frantumazione dialettale, normalissima in una lingua eteronoma che non è mai stata codificata, non è neppure progredita al punto di alterarne l’unità fondamentale. In questa unità faremmo rientrare, con solo limitate riserve, il friulano, il ladino dolomitico e svizzero, e i dialetti lievemente italianizzati della Liguria, del Veneto e dell’Istria. (continua)


(1) Bernardino Biondelli, Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano, 1853. Vedasi in particolare pp. xxi-xxii.

(2) G.I. Ascoli, “L’Italia dialettale”, AGI VIII (1882), p. 103. Da notarsi che l’Ascoli escluse dal gruppo gallo-italico i dialetti veneti i quali considerava più affini al toscano.

(3) Le argomentazioni a favore dell’italianità del ladino e del gallo-italico, tesi formulata e sostenuta da Carlo Salvioni, furono riassunte alla vigilia della seconda guerra mondiale da Carlo Battisti in Storia della ‘Questione Ladina’, Firenze, Le Monnier, 1937. Si veda anche G.B. Pellegrini “A proposito di ‘ladino’ e ‘Ladini’” in Saggi sul ladino dolomitico e sul friulano, Bari, Adriatica, 1972, pp. 96-130.

(4) È indicativa l’affermazione di G.B. Pellegrini nel suo saggio “I cinque misteri dell’italo-romanzo”: “…con ‘italo-romanzo’ alludo alle varie parlate della penisola e delle Isole che hanno scelto, già da tempo, come ‘lingua guida’ l’italiano” (Saggi di linguistica italiana, Torino, Boringhieri, 1975, pp.56-7).

(5) Scrive l’occitanista Pierre Bec: “Ad un tempo innovatore e arcaizzante di fronte al gallo-italico, il reto-friulano dev’essere ad ogni modo integrato all’insieme tipologico galloromanzo italiano o cisalpino, del quale costituisce… un’area marginale e conservatrice”. (Manuel pratique de philologie romane, Paris, Picard, 1970-71, vol. II, p. 316).

(6) Significative le concessioni condizionali del ladinista Lois Craffonara: “…anche se si potesse un giorno provare conclusivamente una anteriore ladinità dell’antica Venezia e delle zone contigue che oggi appartengono senza dubbio all’italo-romanzo [per noi il veneto è bensì un dialetto padano italianizzato], non esiste tuttavia nessun motivo per considerare i dialetti della Sella e del Friuli come dialetti periferici del sistema italiano, poiché resta incontrovertibile il fatto che la vecchia Padania apparteneva alla Galloromania. Quindi i nostri dialetti rimangono - anche nel caso di un’eventuale dimostrazione dell’originaria ladinità della zona veneta - relitti di una romanità un tempo più estesa ma distinta da quella italiana”. (“Zur Stellung der Sellamundarten in romanischen Sprachraum” in Ladinia. Sföi cultural dal Ladins dles Dolomites, I (1977), pp. 73-120). Lo svizzero Andrea Schorta ha concepito addirittura una maggiore unità ‘Ladino-cisalpina’ (“Il rumantsch-grischun sco favella neolatina”, Annales da la Società Retorumantscha, LXXII (1959), pp, 44 63), e il suo connazionale Heinrich Schmid afferma del pari che: “quei tratti che il retoromancio condivide con la zona alto-italiana (…) appartengono quasi senza eccezione alla comune base del romanzo occidentale la quale indica appunto il carattere non-italiano di tutti questi dialetti”. (“Über Randgebiete und Sprachgrenzen”, Vox Romanica, XV (1956), pp. 79-80).

(7) L’italianizzazione della Liguria e del Veneto (evidente anzitutto nel ripristino del vocalismo atono finale) era iniziata invece già nell’alto Medioevo come conseguenza di contatti marittimi e mercantili con la Penisola.

(8) Tesi di Ph.D. inedita, Universit` di Sydney, 1982, 2 volumi.

(9) V.G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 239-239. La cosiddetta (e in realtà poco unitaria) koiné padana di quest’epoca fu, come il vernacolo veneto contemporaneo, un idioma italianeggiante anziché compiutamente galloromanzo.

(10) Per Sergio Salvi l’idea è più anacronistica che assurda. Ne scrive a proposito in Le lingue tagliate (Milano, Rizzoli, 1975): “Se da un lato è indubbio che i tratti caratteristici dei dialetti alto-italiani sono abbastanza smili fra di loro e divergono notevolmente tanto dall’italiano ufficiale quanto dai dialetti del centro e del sud della penisola…, da altro lato ci pare che l’“italianizzazione” del territorio alto-italiano (e delle sue parlate) sia in una fase davvero avanzata, irrimediabilmente segnata, poi, dalla massiccia immigrazione di italiani del centro e, soprattutto, del meridione. Piemonte e Lombardia… sono, probabilmente, irrecuperabili alla parlata materna. Quelli dell’ALP [Movimento Autonomista Libera Padania] cercano di aggirare l’ostacolo puntando sulle smilze aree deprese ed marginate che contornano le grandi oasi del benessere (ormai convertite alla lingua di stato…): ma ci sembra che puntino su di un cavallo tanto nobile quanto zoppo. Il “padano”, del resto, è al di là da da venire anche nelle aree alto-italiane “all’estero” (Ticino, Grigioni italiani, Istria) dove la popolazione difende la propria identità adottando (a torto o a ragione) proprio l’italiano ufficiale” (pp 84-85, n. 9).








Geoffrey Hull
"Etnie" n° 13 (1988)

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Pubblicato su: 2024-08-30 (38 letture)

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